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Il diritto di non essere campioni. Quando il genitore pressa il figlio
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Bambini dopati dai genitori fin dalla tenera età per cercare di fargli raggiungere in breve tempo risultati importanti è la triste realtà di un fenomeno molto preoccupante e anche abbastanza diffuso. Sono bambini che non hanno la possibilità di scegliere di vivere lo sport come divertimento, integrazione e scarico psico-fisico. Si portano dentro la fatica emotiva di gestire il peso della competizione e quello di non deludere il genitore che è disposto a tutto, pur di far vincere il figlio. Sono bambini che vanno facilmente in drop out sportivo, ossia che abbandonano prima del dovuto lo sport perché carichi o sovraccarichi di troppe responsabilità.

 

I bambini hanno e devono avere durante tutto il corso dello sviluppo il diritto di non dover per forza essere campioni. I genitori hanno il dovere di insegnare i veri valori dello sport e di farglielo vivere nel miglior modo possibile. Il figlio non deve fare obbligatoriamente lo sport che decide il genitore, non deve corrispondere per forza alle aspettative genitoriali solo perché lui ha deciso che è portato per quel tipo di attività fisica e che deve realizzarsi in quell’ambito.

 

Mi capita spesso di vedere genitori sugli spalti urlare come dei disperati cercando di incitare il figlio a fare meglio, genitori mai soddisfatti delle sue prestazioni perché poteva fare o impegnarsi di più. I piccoli tante volte mi raccontano di sentirsi soffocati dalla presenza del papà o della mamma agli allenamenti, mi dicono di non sentirsi liberi di esprimersi, di giocare, di ridere, di divertirsi tra un esercizio e l’altro, perché i genitori la vedono come una mancanza di serietà e di concentrazione. Sono bambini anche spesso controllati nell’alimentazione, che quindi non sono liberi di mangiarsi una merendina, gestiti negli spazi ricreativi per non affaticarsi troppo e nelle ore di sonno per non intaccare il riposo finalizzato ad un miglior rendimento fisico. Tante volte finito l’allenamento il genitore continua l’attività di coaching dicendogli dove ha sbagliato e dove poteva fare meglio. I figli a volte si vergognano delle reazioni esagerate dei genitori che litigano con l’allenatore se non dà al bambino lo spazio che secondo loro si merita, se non li valorizza o non li mette in primo piano. Tante volte capita anche che ci siano litigate con gli altri genitori su quello che succede in campo o in piscina o in palestra. I bimbi in questo modo sono sottoposti ad uno stress psichico non gestibile per la loro età, perché hanno già il peso della scuola, dell’attività che fanno e anche dei genitori.

 

Ho seguito un adolescente di 12 anni in terapia che era una promessa nel calcio. Dopo anni di fatiche ha lasciato tutti gli sport perché non sopportava più la pressione del padre. Fin da piccolo il padre, tifoso sfegatato della Roma e patito del pallone, lo aveva iscritto alla scuola calcio perché voleva diventasse come Francesco Totti e voleva a tutti i costi che lo prendesse a giocare la Roma. Non si perdeva un allenamento del figlio, litigava costantemente con la società e con l’allenatore se non davano al figlio lo spazio giusto perché doveva segnare a tutti i costi. Durante le partite si sentiva solo lui negli spalti e quando capitava che qualcuno dicesse qualcosa contro il figlio litigava con tutti. Quando il ragazzo seguiva regolarmente gli allenamenti e giocava bene durante le partite del fine settimana, il padre era contento, gli parlava, lo riempiva di regali e gli faceva fare quello che voleva. Quando invece non era regolare, non lo considerava e si arrabbiava con lui. Al ragazzo questo atteggiamento pesava particolarmente a livello emotivo perché si sentiva considerato solo in funzione del calcio e non amato in quanto figlio. Non sopportava questo peso, perché non si sentiva libero di scegliere e di decidere di vivere uno sport in maniera più leggera. Lui non voleva diventare come Francesco Totti, voleva rimanere se stesso. Questa condizione gli generava una forte pressione e rabbia interna che scaricava con i coetanei attraverso risse, sulla scuola, andando a gravare sul rendimento scolastico e mettendo in atto determinati comportamenti che non facevano bene alla sua salute, come il fumare.

 

I figli si devono sentire amati anche quando le loro scelte che non corrispondono completamente alle aspettative genitoriali. La storia di questo ragazzo è la storia di tanti ragazzi costretti dai genitori a fare un determinato sport o spinti a dover raggiungere per forza determinati risultati. Tutti i minori hanno il DIRITTO DI NON ESSERE CAMPIONI e di vivere lo sport come scarico e come uno spazio per integrarsi con i coetanei e non per primeggiare sugli altri attraverso forme di competizione negative e fini a se stesse.

 

di Maura Manca, Psicoterapeuta